Era il momento più bello.
Un po’ mistero, un po’ desiderio.
Un po’ attesa, un po’ certezza.
L’intervallo fra la fine del campionato e l’inizio formale del mercato, nei periodi aurei del Catanzaro, l’ho sempre vissuto come un limbo fatato.
Una stanza di compensazione fra la gioia di una salvezza in serie A o la vittoria di un campionato e lo svelamento dei nomi che avrei incollato sull’album delle figurine.
Una magia che, quasi fosse un vaso di finissimo cristallo, nessuno aveva il diritto di infrangere. E tutti, in realtà, la rispettavano in attesa che la Gazzetta del Sud o il tg di Telespazio (un’esperienza che, forse, non venne colta nella sua straordinarietà) ci dispensasse con casta parsimonia il nome del nuovo tecnico o quello del mediano che avrebbe presidiato la nostra trincea di temutissima provinciale.
E, prima di tutto, ci comunicasse la conferma del nostro vate, Massimo Palanca.
Il tempo passa e, purtroppo, le buone abitudini pure. Nonostante da qualche anno il Catanzaro sia stato restituito alla sua dimensione più identitaria, la serie B, che, per una città sempre più in bilico, sempre più povera di ragazzi e di speranze, è un autentico lusso.
Anche la vicenda Caserta, dopo quella di Vivarini, è, a un anno esatto di distanza, la cartina di tornasole dell’avvelenamento di un clima che, dormiente quando si vince a Brescia, al Marassi a Spezia, è pronto a esplodere in tutta la sua virulenza e in tutto il suo livore. Quasi fosse una catarsi. O, meglio ancora, una vendetta. Contro chi, però, non è dato sapersi.
È già successo l’anno scorso con Vivarini, a cui dovremmo essere grati per quello che è stato e che ha rappresentato il suo modo di fare calcio, e per averci consegnato al calcio che conta dopo un calvario lungo vent’anni.
A Vivarini, con il quale ho avuto un bellissimo rapporto personale – così come con Fabio Caserta – nato fra la mia Sila e le sue battute di calcio, devo, tuttavia, e in modo assolutamente bonario, rimproverare un peccato capitale e, a quanto pare, irredimibile. Aver partorito dei mostri.
Sì, proprio così.
Aver concepito e aver partorito, l’intolleranza, l’impazienza, il rimprovero, l’accusa, l’inappellabilità di un giudizio.
E, addirittura, un rigore inflessibile – e, in passato, ignoto – verso un modulo di gioco, verso un pareggio e, persino, per un modo di vestire in panchina.
L’interruzione del rapporto con Caserta, con il quale, diciamolo, l’atmosfera da guerra fredda non è mai venuta meno, ha generato così reazioni ambivalenti, anzi contrapposte.
Accolta come una liberazione, imputata allo stesso come un atto di irriconoscenza, percepita con un pizzico di rimpianto da chi, più di ogni altro merito, ne ha apprezzato le doti umane straordinarie.
A me pare, in tutta sincerità, che anche l’affaire Caserta debba, invece, essere collocato nel suo alveo naturale.
Che è quello di un rapporto con un professionista cui dobbiamo essere grati per aver consolidato, con una filosofia di gioco che può piacere o meno ma che deve essere rispettata, le sembianze di una realtà importante della serie B.
E, soprattutto, debba essere collocato in un alveo che è demanio esclusivo di una scelta aziendale. Una scelta che spetta alla proprietà Noto che, da qualche anno, non sta sbagliando un colpo, e che sta lento pede modellando una società di altissimo profilo tecnico e manageriale, pur in una situazione di contesto non facile.
E, allora?
E, allora, grazie a Vivarini, anche dopo un anno. E un grazie doppio a Fabio Caserta che ne ha seguito la scia con una propria fisionomia, senza alzare mai la voce, schermando lo spogliatoio e restando indifferente alle rimostranze più aspre.
E, soprattutto, un grazie a chi tornerà a credere che, oggi, siamo ritornati, grazie a Floriano Noto, in quel limbo fatato. Dove il silenzio non è una resa, ma un segno di gratitudine e rispetto nei confronti dell’uomo prima ancora che per il tecnico. Che sia Caserta o no.
Se il mister ha lasciato Catanzaro per una scommessa personale, per una piazza più importante, per misurarsi con le sue competenze professionali, sarò felicissimo, allora.
Lo merita, come tecnico e come uomo.
E sarò felicissimo, ancor di più, se la prossima stagione ci salveremo alla penultima giornata.
Abbiamo dimenticato troppo presto cosa ci siamo lasciati alle spalle, gli autogrill dove eravamo costretti a fermarci per un panino o per fare pipì come canne al vento e che, adesso, sono le sale d’attese degli aeroporti più importanti d’Italia.
Adesso, ancora, troppe parole. Che rischiano, dopo un’altra stagione irripetibile, di essere fuori luogo.
Gli uomini lasciano impronte ma passano.
Il Catanzaro resta.
E resta cucito al cuore di chi gli vuole bene, nella gioia e nel dolore.